Come nasce una nomea, come si cambia una percezione
Imprenditori, meccanici, commercianti che ogni giorno acquistano, preparano e rivendono veicoli con passione e fatica.
Molti di loro sono professionisti seri, che hanno costruito la propria azienda da zero e lavorano con onestà.
Eppure, ancora oggi, quando qualcuno dice “vende auto”, la risposta tipica è:
“Ah, un automobilaro…”
Una parola che sembra leggera, ma che pesa come un giudizio.
Il termine automobilaro nasce nel dopoguerra, quando il mercato dell’usato era ancora disordinato e senza regole.
Bastava un piazzale, qualche macchina sistemata alla buona e un cartello scritto a mano per essere “venditori d’auto”.
In quell’ambiente pieno di improvvisazione, la furbizia era spesso considerata un talento, non un difetto.
Il risultato è che “automobilaro” è diventato sinonimo di chi vende più parole che garanzie, un commerciante brillante ma poco trasparente.
Quell’immagine, tramandata da film, giornali e barzellette, ha finito per definire un intero settore.

Secondo racconti affidabili, tramandati da chi ha vissuto la Torino degli anni Cinquanta e Sessanta, la mattina presto in Piazza Vittorio Emanuele arrivavano i commercianti d’auto con le vetture già lucidate e allineate.
Le parcheggiavano in piazza e le proponevano direttamente ai passanti, trattando, discutendo, vendendo sul posto.
Era una sorta di mercato dell’auto usata a cielo aperto, la versione “analogica” dei moderni portali come AutoScout24 o Subito.
E non accadeva solo a Torino.
Scene simili si ripetevano a Milano, Roma, Napoli, Bologna e Firenze, dove le piazze principali o i viali più spaziosi si trasformavano, nelle mattine di mercato, in veri e propri piazzali improvvisati di compravendita.
Ogni città aveva la sua “piazza delle auto”, dove l’ingegno italiano e l’arte della trattativa davano spettacolo: strette di mano, promesse, odore di benzina e un vociare continuo che mescolava affari e improvvisazione.
Fu in quelle piazze che nacque la figura dell’automobilaro come archetipo sociale:
un misto di commerciante, meccanico, mediatore e psicologo, capace di convincere chiunque — con una parola, un gesto, o un sorriso.

Chi rappresentava una Casa madre come BMW, Audi, Mercedes o Stellantis, ha potuto contare su un vantaggio enorme: la fiducia riflessa del marchio.
Il cliente non si fidava tanto del venditore, ma del logo sul cofano.
Era il simbolo a garantire serietà, ordine e qualità, anche quando l’azienda locale non era poi così impeccabile.
Il marchio diventava un filtro di credibilità, ciò che mancava agli indipendenti.
E così, mentre i concessionari si fregiavano di un’immagine “industriale”, gli altri restavano intrappolati nella vecchia etichetta dell’automobilaro.

Oggi le cose stanno cambiando.
Molte aziende indipendenti hanno scelto di evolversi, investendo in ciò che davvero costruisce fiducia:
Non vogliono più essere chiamate automobilari:
sono produttori di auto usate certificate, aziende che trasformano il veicolo in un prodotto industriale, non in una semplice occasione di mercato.

La community Non Prendermi per il Chilometro (NPXC) nasce per rompere questa catena linguistica e culturale.
Non è un marchio di comodo, è un sistema di controllo e di reputazione.
Ogni rivenditore che ne fa parte viene verificato nella condotta legale e commerciale, nelle procedure di vendita e nella trasparenza dei documenti.
Solo chi dimostra serietà e continuità può restare all’interno del network.
In questo modo, la community trasforma l’immagine del venditore d’auto:
da “piazzista che convince” a professionista che tutela.

Chi compra un’auto oggi non cerca solo un motore efficiente, ma un interlocutore affidabile.
E chi vende, se vuole sopravvivere, deve sostituire la scorciatoia con la reputazione.
“Non Prendermi per il Chilometro” difende la credibilità di chi lavora onestamente e investe per alzare il livello del mercato.
Perché la vera differenza non è più tra nuovo e usato, ma tra chi mente e chi costruisce fiducia ogni giorno.

Alfredo Bellucci – NPXC
“Noi siamo fiducia.”